III

Le «Ultime lettere di Jacopo Ortis»

1. Le redazioni dell’«Ortis»

Occorre anzitutto premettere brevi notizie sulla storia esterna di questa opera tormentata e famosa, per poi studiare la sua formazione a strati corrispondenti a momenti, ad esperienze vitali e letterarie in quel procedere a spirale dello spirito foscoliano, nel suo ritornare con nuova ricchezza e con nuova capacità artistica su situazioni e persino su materiale già precedentemente elaborati in una fase omogenea e pure inferiore per complessità e decisione. Ciò che avevamo già veduto negli anni di noviziato poetico fra raccolta Naranzi e Tieste si chiarisce – come disegno essenziale, come ritmo tipico della vita artistica del Foscolo – nel campo di prova e di risultati dell’Ortis, in cui alcune situazioni autobiografiche e poetiche e con loro un certo materiale poetico, un insieme di motivi sentimentali e lirici e di toni manifestati negli anni precedenti e sedimentati nell’animo del poeta, vengono ripresi, arricchiti, rielaborati, esclusi o confermati a distanza di anni in un largo cerchio di attività e di trasformazione di vita e di letteratura in poesia o almeno in avvio, in premessa di poesia.

Lungo cammino di vita e di arte negli anni “ortisiani”: e se ne ricordino le tappe biografiche essenziali, partendo dalla fine del ’97 quando si prepara il primo Ortis che è l’inizio piú sicuro dell’opera, anche se riprende e ravviva un’esperienza essenziale come quella idillico-elegiaca del ’96 di Laura che però in realtà conosciamo solo da documenti poetici contemporanei, come le Rimembranze: 1797, periodo di attività politica nella repubblica democratica veneziana, trattato di Campoformio e soggiorno con attività di giornalista e di cronista (ma un cronista sempre pronto a sconfinare nel commento personale) per il «Monitore», delle sedute della Assemblea Legislativa della Cisalpina[1], amicizia con il Monti e sua generosa Difesa, amore sfortunato per Teresa Pikler Monti. Poi viaggio, nel settembre del ’98, a Bologna e impiego come «aiutante del cancelliere e segretario per le lettere del Tribunale», ed estensore con il fratello Giovanni del «Genio democratico» di Modena, fino all’inizio dell’attività militare dall’aprile ’99, come luogotenente della Guardia nazionale nella lotta contro i ribelli (ferita a Cento, prigioniero a Bozzano e peripezie nel Mugello) e poi con la Legione Cisalpina all’assedio di Genova alla fine del ’99. A Genova – dopo una breve parentesi a Nizza – vita politica, galante e militare (presa del Forte dei “Due fratelli”, il 13 aprile) –, poi dopo la resa del Massena (4 giugno 1800) a Milano, a Bologna fra ottobre e novembre, a Firenze (e a Pistoia e Siena) con la conoscenza e l’amore per la Roncioni e di nuovo a Milano dal marzo 1801 e nuovo amore per la Fagnani Arese.

All’inizio di questo periodo fra Milano e Bologna, il modesto romanzetto epistolare indicato nel Piano di studi con il titolo di Laura, lettere (accanto a titoli di opere che accentuano il carattere idillico-elegiaco di un imitatore non solo di Goethe e Rousseau, ma ancora del Richardson e dei narratori lacrimosi e moralisti del Settecento: Lettere ad una fanciulla, La riconoscenza, La solitudine, Racconti morali), sorto in un’epoca di sentimentalismo preromantico fra Bertola e Cesarotti, fra “bello” e “sublime”, si presentò alla fantasia e all’animo del Foscolo come una situazione e una possibile espressione di uno stato d’animo essenziale e centrale. «Questo libro non è interamente compiuto, ma l’autore è costretto a dargli l’ultima mano, quando anche ei nol volesse». Era un libro dell’anima, nato su di un motivo centrale, in una concentrazione sentimentale in un momento di particolare tensione e ricchezza di fermenti. E se anche – come è piú probabile – non fu compiuto, la sua prima apparizione nell’animo del poeta e la sua prima frammentaria elaborazione ne prepararono una necessaria ripresa come di un organismo potenzialmente ricco poeticamente e capace di una sistemazione in una specie di autoritratto in movimento di motivi che da tempo urgevano nel suo animo, aperti ad uno sviluppo che solo la maggior potenza di definizione del 1801-1802 poté in qualche modo concludere, anche se nel 1816-1817 (e sull’appoggio della relativa Notizia bibliografica che fu anche ripensamento e arricchimento) aggiunte e correzioni corrispondono alla natura essenziale dell’Ortis come autoritratto e confessione e insieme al bisogno di meglio costruire e definire.

Esigenze già vive – se pur piú parzialmente – nel periodo in cui il Foscolo ventenne riprese i frammenti e l’abbozzo di Laura dopo la lunga serie di tentativi lirici, tragico-lirici, e l’impeto eloquente delle Odi politiche. Si trattava per lui di portare ad unità intorno ad un essenziale stato d’animo, ma in una larga possibilità di riflessioni, di spunti diversi, i fermenti e i toni elaborati nelle varie fasi del suo noviziato poetico. Possibilità piú facilmente raggiungibile in prosa poetica che non in una lirica stringata e concisa. In realtà vedremo che nella redazione bolognese la sintesi risultò assai limitata e dominata dal tono idillico-elegiaco (a cui il Foscolo tornò anche sotto lo stimolo di un momentaneo accantonamento dell’espressione piú impegnativa e politica che aveva avuto un certo esaurimento nell’attività pratica e nelle Odi del ’97) e che la natura piú tipica dell’Ortis come autoritratto in movimento e quasi specie di Zibaldone drammatico e romanzesco sarà raggiunta pienamente solo nella redazione milanese. E tuttavia anche nell’Ortis del ’98 non mancò un nucleare abbozzo dell’autoritratto foscoliano e il bisogno – questo persino troppo evidente – di costruire un’opera, di superare lo stadio di espressioni discontinue e di limitata organicità, di fare un nuovo tentativo piú vasto e piú libero dopo quello pur notevole del Tieste.

Nel ’98 dunque il Foscolo scrisse in parte la prima vera redazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e a Bologna diede a stampare all’editore Marsigli quanto aveva fino allora composto.

Ma con la discesa degli austro-russi nell’aprile del 1799, il Foscolo – luogotenente nella Guardia Nazionale – dové lasciare la città e la pubblicazione del manoscritto rimase interrotta alla lettera XLV, all’incirca in corrispondenza della partenza di Jacopo che costituisce la separazione fra la prima e la seconda parte dell’Ortis definitivo. Ma l’editore poco scrupoloso diede incarico ad un mediocre letterato bolognese («laureato in legge e seguace delle Muse e della Filosofia»), Angelo Sassoli – in realtà assai “aggiornato” quanto a letture di moda del tempo, ma grossolano e banale –, di continuare l’opera (servendosi anche di abbozzi lasciati dal Foscolo[2]) per completare cosí nel giugno ’99 la prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, apparsa con la data 1798. Ma la paura (in verità esagerata, dati i pochissimi accenni politici delle quarantacinque lettere!) della censura degli occupanti fece sí che l’editore ritirò l’edizione[3] e con nuova manipolazione sassoliana in tono piú reazionario (svisando e assecondando la piega della delusione e l’antipatia per la «licenza» esistente nel testo foscoliano) pubblicò una nuova edizione in due volumetti con il doppio titolo – molto alla moda e quasi simbolico per la deformazione popolaresca e romanzesca – di Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis. Finalmente, dopo.Marengo ancora un’altra edizione che ripristinava la prima, ma con il nuovo titolo piú allettante, fu messa in vendita dai due soci.

La famosa protesta del Foscolo, appena vide la seconda (e la peggiore) delle edizioni Marsigli a Firenze alla fine del 1800, fissa bene il distacco dell’autore rispetto alla deformazione sassoliana e il suo attaccamento ad un’opera sentita come “sua”, di «suo conio», come insieme opera d’arte e opera di vita. Alla «Gazzetta universale» di Firenze che presentava la Vera storia come opera che «molto interessa la sensibilità del cuore umano», il Foscolo precisava in una lettera del 2 gennaio 1801 (Ep., I, p. 92) che le edizioni bolognesi (ed una torinese ed una senza data e luogo di stampa che non conosciamo) erano «apocrife e adulterate dalla viltà e dalla fame. Vero è, che io erede de’ libri dell’Ortis[4], e depositario delle lettere da lui scrittemi nei giorni ne’ quali la sua trista filosofia, le sue passioni, e piú di tutto la sua indole lo trassero ad ammazzarsi, ne impresi l’edizione non solo per confortare il mio esilio, e per far vivere (per quanto in me stava) il nome del mio solo amico; ma perché le sue disavventure, le sue virtú, la sua morte deliberata, e l’apologia ch’egli fa del suicidio fossero di consolazione, e di esempio agl’infelici. Se non che piú fieri casi m’interruppero quest’edizione abbandonata a uno Stampatore, il quale reputandola romanzo lo fe’ continuare da un prezzolato, che convertí le lettere calde, originali, Italiane dell’Ortis in un centone di follie romanzesche, di frasi sdolcinate e di annotazioni vigliacche. Da questa vennero tutte le altre edizioni, guaste per altro diversamente, poiché dovendo spiacere gli alti sensi dell’Ortis a tutti gli usurpatori di Italia da lui profondamente aborriti, quei villani editori manomettevano anche ciò che spettava al suo vero Autore per palpare i diversi Governi dove l’opera si stampava, ecc.». Si notino per tutto l’Ortis, e particolarmente per la nuova redazione, certe parole e frasi: «reputandola romanzo», «lettere calde, originali, Italiane», che indicano, nel gusto di trasfigurazione e di travestimento sempre operante nel Foscolo, la sua piú matura interpretazione dell’Ortis come opera lirica e autobiografica; piú che romanzesca, e piena di ,significato rivoluzionario in senso nazionale-romantico.

Cosí nel 1801 il Foscolo si mise a rivedere e rifare e completare e già nel marzo parlava di un’edizione avviata presso il Mainardi di Milano (vedi la lettera del 27 marzo al Piatti), di cui poi uscí solo il primo volumetto che Foscolo inviò subito al Melzi, all’Alfieri, al Goethe[5] (16 gennaio 1802) (la lettera al Goethe è importante per l’annuncio di una traduzione del Werther nello stile dell’Ortis fatta dalla Arese, per la pretesa di aver tratto tutto dal «vero» – certo il vero del suo animo, non dei fatti – e per la strana concessione che l’Ortis abbia avuto «forse» origine dal Werther). Ma l’opera poté finalmente essere interamente pubblicata solo nell’ottobre 1802 per i tipi del «Genio tipografico» a Milano, con la data «Italia – 1802».

Non era finita del tutto la vicenda dell’Ortis, perché nel 1816 a Zurigo, con falsa data «Londra 1814», il Foscolo lo ripubblicava con cambiamenti ed aggiunte e con la Notizia bibliografica e ancora nel 1817 apportava qualche correzione in una ultima edizione (Londra 1817).

Ma certamente – a parte la famosa lettera del 17 marzo cosí bella e ortisiana ed alcune correzioni importanti per il pensiero foscoliano – l’edizione del 1802 rappresenta la mèta del lungo cammino dell’Ortis, anche se le ultime due edizioni, oltre alla cura stilistica e all’interesse annesso dal Foscolo maturo alla sua opera giovanile, indicano una certa “apertura” dell’Ortis anche dopo gli scritti didimei come base sempre valida di una ideale «storia di un’anima» foscoliana mai terminata. E perciò il nostro interesse si deve appuntare sul periodo 1798-1802, fra primo Ortis bolognese e Ortis milanese: il che non significa affatto svalutare l’importanza e l’arcaicità del proto-Ortis (il nostro lavoro ha anzi messo in particolare valore la prima attività foscoliana per nulla separabile dall’attività piú matura), ma sentire che nel ’98 il primo abbozzo piú chiaramente preromantico e settecentesco fu ripreso con piú forza di costruzione e con maggiore necessità di espressione larga e personale.

E dal ’98 al 1802, pur nella produzione di alcuni Sonetti, delle Odi, della stesura della Orazione a Bonaparte, nell’iniziato carteggio con l’Arese, l’Ortis costituisce l’opera maggiore di quegli anni, il compito di maggiore impegno. E quegli anni si possono giustamente chiamare «ortisiani»[6].

2. «Laura» e «Ortis» bolognese

Impresa disperata e poco produttiva è quella di ricostruire, come tenta in uno studio sottile e complesso Vittorio Rossi[7], il primo romanzetto Laura, lettere di cui non possediamo che il titolo, e i frammenti della storia di Lauretta nell’Ortis, e di cui abbiamo giú indicato l’ubicazione di gusto e d’intonazione nelle lettere al Costa e all’Olivi e nell’Elegia Le rimembranze che sono addirittura rifuse nella scena famosa del bacio recuperata nell’Ortis milanese (lettera del 14 maggio in cui ritornano di peso espressioni di quelle terzine[8] – prova di quanto il Foscolo avesse sempre presenti le sue produzioni giovanili e come se ne servisse nel suo tipico metodo di rielaborazione di motivi sentiti vitali riportandone il linguaggio e il gusto in cui essi erano apparsi la prima volta, senza paura di contaminazioni di nuovo con vecchio nella sua padronanza di tutto il proprio passato e nel continuo ritorno a quella prima riserva essenziale di miti, di sfumature, di toni, utilizzati con nuova destinazione e nuova sicurezza). Ma se alcuni casi mostrano come il Foscolo piú maturo utilizzasse brani giovanili trascurati nel primo Ortis, e se da un punto di vista di situazione generale si può concordare con il Rossi che egli ripristinò nell’Ortis milanese la situazione dell’amore per la «fanciulla» (Laura e Teresa fanciulle) al posto della situazione piú romanzesca di Teresa vedova, bisogna però ricordare anzitutto per questa seconda osservazione che certamente influí sulla trasformazione l’amore per la fanciulla Isabella Roncioni, come sulla prima Teresa gravava la realtà biografica di Teresa Pikler Monti (e dietro la suggestione non osservata della commedia di G. Greppi, Teresa vedova, e forse la volontà di fondere la situazione della Carlotta wertheriana nelle due fasi di promessa e di sposata: tanto collaborano e si mescolano nel Foscolo letteratura e vita!), e che in generale il ripristino dovrebbe piuttosto intendersi per una volontà piú decisamente tragico-lirica nel nuovo Ortis, mentre nel primo Ortis – in accordo con Laura – il romanzesco e l’idillico prevalevano come base di lirica in una minore ampiezza di motivi.

Ritengo insomma che il saggio del Rossi, cosí utile come prima vera indicazione degli strati ortisiani (solo sospettati dal De Sanctis e dal Carducci), e ricco di puntuali osservazioni felici, non possa venire accettato integralmente per quanto riguarda la Laura: impossibile è ricostruire il proto-Ortis, Laura – e semmai dovremmo attenerci a quello che poté esserne riassunto nella Storia di Lauretta (con le sue tinte piú giovanili e con una primissima suggestione sterniana) –, ed è errato trovare per Laura una maggiore vicinanza all’Ortis milanese che non nell’Ortis bolognese. Evidentemente nell’Ortis milanese ci fu una utilizzazione di Laura piú generale (e piú distaccata per quanto riguarda la Storia di Lauretta, antefatto e racconto adatto ad aumentare stato di dolore e di compassione alla stessa stregua di altri minori accenti inseriti nel nuovo Ortis), ma d’altra parte è innegabile che l’Ortis bolognese è nel suo complesso inevitabilmente piú vicino a quell’atmosfera sentimentale fra Genio e anime sensibili, fra “amore e morte” e patetica natura bertoliana-ossianesca, fra Saffo ed Ossian, che poteva piú limitatamente respirarsi nel tenue romanzetto del ’96.

Ciò che appare importante è la constatazione dell’intimo legame tra il Foscolo adolescente e il Foscolo giovanile e della precoce nascita di miti fantastici e sentimentali che vennero acquistando a poco a poco una consistenza e una realtà poetica, dapprima incerta e piú letteraria, ma in ogni modo necessari e predestinati nell’animo del Foscolo a fungere da essenziali punti di riferimento, da direzioni e momenti indicativi della sua spirale sempre piú ricca ed individuata.

Non indugeremo a fantasticare su Laura, di cui del resto abbiamo implicitamente parlato ricostruendo il gusto del Foscolo nel suo noviziato dal ’95 al ’96 e precisandone l’ubicazione di poetica e di tono nelle Rimembranze e nelle lettere di quel tempo.

Parliamo invece dell’Ortis bolognese, opera convenzionale del ’97-98 sull’avvio del sonetto già letto e dopo l’esplosione di eloquenza poetica e di tensione tragico-lirica del Tieste e delle Odi politiche.

Di solito il lavoro molto auspicato della elaborazione dell’Ortis (ad esempio il De Robertis giustamente lo considera il lavoro piú utile da fare su quest’opera ormai studiatissima da altri punti di vista) è rimasto piuttosto un desiderio e neppure la recente Lettura dell’Ortis di M. Fubini (Milano 1947) assolve completamente questo compito[9].

L’Ortis bolognese si presenta come opera di raccolta dei motivi foscoliani già affinati nelle poesie precedenti e come nuovo ritratto della sua personalità anelante ad espressione sulla direzione fondamentale idillico-elegiaca animata sempre piú di tensione drammatica nel personaggio essenziale dell’animo sensibile e del genio ribelle, dell’uomo in cui sentimento lotta contro ragione, dell’amante della spontaneità e della natura, mosso da un’etica sentimentale in cui la virtú illuministica diviene, piú che meta di educazione razionalistica, educazione sentimentale di anime bennate, compassionevoli e fiere, generose ed impavide: l’eroe preromantico del sentimentalismo rousseauiano e wertheriano, fra l’emozione del bello, dell’amabile bellezza (l’espressione passa dalla prima odicina foscoliana nelle pagine del primo Ortis), e l’impressione del sublime tempestoso, fra languore erotico, religiosità naturale e malinconia di Weltschmerz. Ma tutto – nei riguardi dell’Ortis maggiore – mantenuto in una generale atmosfera di maggiore idillio ed elegia in cui gli scatti eroici e ribelli, la voce della passione irrefrenabile, del pessimismo mescolato ad una religiosità biblica e cupa, perdono la loro unilaterale violenza, mentre tendono verso condizioni particolari – piú avanzato di tanto preromanticismo languido e moderato fra Bertola e Pindemonte – la stessa atmosfera piú pittoresca. Nell’Ortis milanese assisteremo ad un contrasto maggiore e ad un potenziamento drammatico e passionale di tutto il tono dell’opera. Qui è avvertibile nello scatto foscoliano, acquisito duraturamerte nel Tieste e nelle Odi politiche, una certa maggiore tenerezza sentimentale. Il Foscolo evidentemente, nel riprendere i motivi del periodo precedente, li aveva virilizzati e tesi, ma non aveva resistito all’inclinazione tipica che li caratterizzava, al fascino del tono idillico-elegiaco a cui sostanzialmente subordinò nella parte rimastaci il motivo eroico e politico nelle sue possibilità di riflessioni storiche e pessimistiche di ribellione e di tragedia di libertà. Egli aveva già scritto Tieste e Odi politiche tutte piene – come vedemmo – di furore di libertà, di austerità etico-religiosa, di vocazione al suicidio magnanimo, e d’altra parte già Campoformio era avvenuto con il tema del tradimento della patria. Ma nel ritornare sul romanzetto del ’96 e nel riprendere una situazione sentimentale amorosa quale era stata quella delle Rimembranze e di Laura (in cui addirittura, come nella lettera all’Olivi, doveva essere esaltata la fuga nella pace campestre dalle tempeste della vita civile), il Foscolo, per quanto carico di interesse politico, ridusse al minimo quell’elemento che nella redazione milanese si accresce nella stessa prima parte condizionata dalla prima redazione, e straripa nella seconda anche in coincidenza con la trasfigurazione di vicende ed esperienze posteriori all’Ortis bolognese.

Solo la prima lettera esprime il tema politico dell’esilio in connessione piú con la comoda precauzione del ’96 (quando il giovane si era ritirato in campagna per prevenire le prime persecuzioni del governo aristocratico) che con la fuga dopo Campoformio.

E subito, sul motivo pur vigoroso (ma impacciato nella contaminazione dei due avvenimenti del ’96 e del ’97) della difficoltà della politica per l’uomo «dabbene» («Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue ed esige il sacrificio della virtú») prevale il motivo idillico-sentimentale delle anime belle e del piacere della solitudine campestre: «Se tu potessi volare su queste colline!... T’è caro l’ozio solitario della campagna: qui riderem della gloria! Infelice colui che non ha per oggetto delle sue azioni che quest’idolo vano! Egli non gustò il piacere di una vita mediocre e pacifica, non ringraziò i consigli dell’amico, non sente la soavità del pianto secreto sparso su le disgrazie dell’uomo onesto o sul sepolcro di due amanti fedeli» (Prose, ed. Cian, I, p. 79). Il tono che subito s’impone è quello idillico-elegiaco che già nel giovanissimo Foscolo si era presentato nella suggestione bertoliana, sulle offerte delle prose campestri del Pindemonte, di lettere cesarottiane, di traduzioni dai melanconici inglesi e naturalmente sull’esempio piú importante della Nouvelle Héloïse e del Werther, ma sempre in coincidenza con il tono piú italiano del preromanticismo idillico-elegiaco, in cui si eran dissolti senza fatica anche ultimi residui d’Arcadia.

Questo tono fondamentale si allarga in forme descrittive, pittoresche e sentimentali in cui brevi spunti di riflessioni pessimistiche sono contenuti dentro una prosa tenera e preziosa, in cui si fondono eleganza classicheggiante e cadenza sentimentale preromantica.

Ecco cosí presentarsi subito nella lettera III la descrizione del lago dei cinque «fonticelli» (grande abbondanza di diminutivi in questo primo Ortis) che nel primo Ortis è sostanzialmente il centro ideale del romanzo: «Questa mattina mi sono alzato per salutare l’Aurora. Arrampicava a fatica per trovarmi su la cima della montagnetta che domina queste campagne, quando mi distolse un lontano fremito d’acque. Mi fu guida l’orecchio e, dopo una discesa difficile verso la parte opposta al mio romitorio, ho veduto cinque fonticelli che s’affrettavano a unirsi tutti in un limpido lago. Come fresche erano quell’acque, ombreggiate da folti salici, i quali non poteano però impedire al sole di rompere i furtivi suoi raggi su le onde riscintillanti e agitate pel continuo cascar de’ ruscelli! Ad onta che questo mese non sia amico ai bagni, ho voluto spogliarmi ed immergermi in quel laghetto, che pareva accogliermi con voluttà. Il mio cuore cantava un inno alla natura, e la mia fantasia s’illudeva invocando le ninfe, amabili custodi delle fontane. “Illusioni!” grida il filosofo. E non è tutto illusione? tutto. Beati gli antichi che si credevano degni de’ baci di Venere, che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il bello ed il vero accarezzando gl’idoli della loro immaginazione! La religione greca e romana ha educato gli artisti e gli eroi, e a questo dobbiamo i capi d’opera che il caso ha rapito alla inclemenza de’ secoli. Cosí io riflettea, diguazzandomi. Mi son rivestito e con due grappoli colti di fresco son ritornato a passare il resto della mattina in compagnia del mio Plutarco» (Prose cit., p. 81).

Pagina fondamentale per la densità e brevità di motivi dell’animo foscoliano nella loro nitidezza piú elementare dentro una prosa animata, ma tiepida e colorita, sensibile e poco incisa, sul margine di una maniera (la maniera preromantica piú squisita e si pensi al Viaggio sul Reno del Bertola) e pure costitutiva, nell’innesto di motivi piú foscoliani, di una prosa ormai inizialmente individuata e coerente a questo clima di soave idillio di fine Settecento, ricco di figurine, di quadretti sensibili.

Questo primo Ortis nella parte che ci rimane (ma possiamo immaginare anche nel suo compimento se a questo il Foscolo fosse arrivato nella tanto minore ricchezza di esperienza e di vicende biografiche) è nella sua minore complessità piú facilmente coerente o insieme piú miniaturistico e pittoresco, piú idillico-elegiaco malgrado la situazione esteriormente piú complicata di Teresa vedova e sposa di Odoardo, con la sua scala di amori dal primo marito a Odoardo a Jacopo: situazione piú da dramma borghese e da romanzetto sentimentale settecentesco che da potente espressione dell’anima.

Si noti il tono di beatitudine, di estasi “campestre” che subito prevale e quasi cancella pessimismo e dolore politico e tutto traveste in un’aura di simpatia e di sensibilità tenera: persino Odoardo diviene qui una figura giovanile, presentata in situazione pittoresca e poetica (Jacopo lo vede in campagna intento a disegnare).

Figurine, incontri, linee tenere di descrizione pittoresca e di descrizione psicologica affettuosa e comprensiva che rende tutti o quasi tutti buoni, simpatici, amabili, di fronte ad un quadro insistente, ma generico della perfidia umana, degli ostacoli che la società frappone al genio ed al «cuore», nella esaltazione di un’élite di anime sensibili e di uomini viventi nella natura: facile rousseaunismo che presenta una vita idillica senza vizi (lettere VI a VII), gessneriana, felice, dalla natura in pace, ai villani pacifici e patriarcali, alla famiglia perfetta secondo i modelli svizzeri e tedeschi di moda preromantica: «Certo la benedizione del cielo si diffonde su questa ottima gente; ed io pure sono divenuto con essa felice. Non cesseresti mai di bramare una sposa come Teresa ed una figliuoletta come la Giovannina. La vecchierella Margherita, che ha veduto nascere la famiglia, è ancora, a dispetto di settant’anni, affabile e gaia come una fanciulla che va a marito: tanto può la pace del cuore! Odoardo è un angelo, buono, esatto, liberale, paziente... non ha che un po’ di garrulità. Bada che non incominci a parlarti de’ suoi viaggi...». Ma anche la caricatura di Odoardo che si accentua nelle righe seguenti è bonaria, non altera l’aria idillica: «Egli ha il giornale degli accidenti piú frivoli: ora ti scappa con uno stranissimo sogno, or con l’esatta descrizione di una festa da ballo. Aggiungi mille avventure! mille pericoli! In seguito ti annovera gli studenti di Padova, e pesa il merito di tutti gli artisti del paese: confronta i pittori antichi ai moderni, piatisce la causa di questi e di quelli, siede pro tribunali e giudica in forma. Se talvolta io lo interrompo, abbandona il primo soggetto e incomincia a tessermi la storia metereologica di tutti i giorni di questo mese...». Embrione bonario del nuovo Edoardo che arriverà sino all’implicita qualifica di «scellerato».

Il tono idillico si prolunga intatto fino alla lettera X (e culmina piú autenticamente nel bel finale della IX che tanto vigorosamente campeggerà nella prima parte del nuovo Ortis: «Che bell’autunno! Addio Plutarco!... sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io passo la mattina a colmare un canestro d’uva e di persiche, ch’io copro di umide foglie, avviandomi in seguito lungo il fiumicello; e, giunto alla villa, desto tutta la famiglia di Teresa canticchiando le canzonette della vendemmia»), quando, in una scena di gusto assai scadente, si presenta il motivo “lacrimoso” in una scena fra voluttuosa e patetica.

Odoardo deve partire e piange abbracciato a Teresa che incoraggia Jacopo – sopraggiunto inaspettatamente e imbarazzato – a fermarsi, «mirandolo con un sorriso cosí patetico e con tanta semplicità, ch’io non posso ancor ripensarvi senza sentirmene innamorato».

È da questa scena che nasce l’amore: dal seno di una scena patetica e pittoresca in cui una leggera sensualità, amore e sentimentalità si intrecciano e si provocano: «sentivo dentro di me quella commozione che ci fa piangere con certa voluttuosa tristezza al pianto di un amabile addolorato...» (p. 88).

Ecco una caratteristica del primo Ortis: per quanto il Foscolo dica per bocca di Jacopo: «Bada, dunque, o Lorenzo, di non perdere il filo del divin racconto perché io sono uno storico che non si concilia l’attenzione per la via dell’ordine» (p. 89); e per quanto l’antefatto del primo matrimonio col «galantuomo di Padova» in mezzo all’amore non mai spento per Odoardo entri con fatica e con molti spunti di goffaggine nel romanzo, il primo Ortis gode di una facile compattezza, di una certa continuità narrativa sulla linea facile del descrittivismo, del tono idillico-sentimentale.

Anche la gita ad Arquà (sempre nella lettera X), tutta intessuta di echi letterari e addirittura di citazioni poetiche (che vanno continuando nelle lettere successive, costituendo una specie di antologia non diversa da quella scelta di libri che noi conosciamo già dal Piano di studi), è costruita sul tono dell’idillio campestre, o persino con tratti da scampagnata di famigliuola borghese («Io me ne andava innanzi, Teresa veniva appresso con Odoardo e la ragazza ci tenea dietro in braccio all’ortolano»; p. 92), che il Foscolo volle rialzare appunto con le citazioni poetiche: prima una descrizione del Prometeo montiano, poi la fine di un sonetto dell’Alfieri al Petrarca, poi ancora un brano descrittivo del Monti. E, in mezzo ad una descrizione di paesaggio pittoresco (tecnica bertoliana e pindemontiana), la narrazione patetica dei ricordi di Teresa, la recita di poesie petrarchesche da parte di Jacopo e del sonetto alfieriano al Petrarca citato da parte di Teresa e il ritratto di Laura fatto da Odoardo. Un ingenuo estetismo si accoppia al sentimentalismo in aria di idillio: contadinelle che salutano Teresa e «la colmano di benedizioni e di lodi», baci teneri di Teresa alla figliuoletta serenamente dormente. Ed è in questo tessuto di tenerezza e di sensibilità preromantica che l’elegia si svolge come naturale sviluppo del patetismo e del desiderio sognante e irrealizzato: «Buona notte, Lorenzo. Sèrbati questa lettera: quando Odoardo si porterà seco la felicità, ed io non vedrò piú Teresa, né piú scherzerà su queste ginocchia la sua semplice figliuolina; in que’ giorni di noia, ne’ quali ci è caro perfino il dolore, rileggeremo queste memorie, sdraiati su l’erba che guarda la solitudine di Arquà, nell’ora che il dí va mancando. La certezza che Teresa è felice rasciugherà il nostro pianto. Facciamo tesoro di sentimenti soavi e cari, che ci ridestino per tutti gli anni che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la rimembranza che non siamo sempre vissuti nel dolore» (p. 95).

Idillio ed elegia rappresentano i due poli di questa prosa poetica e nel loro incontro anche le punte piú appassionate e piú decise del pessimismo foscoliano, del contrasto fra passione e ragione, vengono come smorzate da questa atmosfera piú blanda che solo in parte manterrà la sua funzione moderatrice ancora nella prima parte dell’Ortis milanese, ma che in questa prima redazione è assolutamente dominante. Cosí nella lettera XI la frase che campeggia nella lettera del 22 novembre dell’Ortis maggiore («O tu che disputi tranquillamente su le passioni, se le tue fredde mani non trovassero freddo tutto quello che toccano, se tutto quello ch’entrò nel tuo cuore di ghiaccio non divenisse tosto gelato, credi tu che andresti cosí glorioso della tua severa filosofia?») non interviene a rilevare drammaticamente le riflessioni pur pessimistiche che precedono e che possono benissimo adattarsi al tono pacato e scherzoso dell’inizio, in una cerchia di toni sfumati e graduati, capaci di avvolgere spunti di dramma, di lirica piú intensa, ed anche di accogliere forme piú sorridenti ed ironiche senza vero contrasto e senza stacco, come invece si avvertirà nell’Ortis maggiore che pure accoglierà queste forme, ma spesso imprimendo loro un fremito piú pungente e risentito o, come nelle lettere padovane, aggiungendo qualche avvertimento: «T’accorgerai che questa lettera è copiata e ricopiata, perch’io ho voluto sfoggiare lo bello stile» (Cian, I, p. 274). Facile è cosí la coerenza fra le riflessioni piú foscoliane sul cuore (centro della figura di Jacopo e motivo della sua unità lirica fra prima e seconda relazione: «ma spesso rido di me, perché propriamente questo mio cuore non può soffrire un momento, un solo momento di calma. Purch’ei sia sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spiran avversi o propizi. Ove gli manchi il piacere ricorre tosto al dolore»), scenette come quella del ladruncolo dell’orto (che nel nuovo Ortis è spostato verso l’inizio – 24 ottobre – dove sono raccolte le scene piú blande e piú pittoresche e qualche lieve correzione accentua il riferimento pessimistico generale[10]) e la lettera XIV iniziata ad idillio e terminata in elegia: tipico esempio del modulo piú comune di questo primo Ortis (nella nuova redazione – 12 novembre – si toglierà un’espressione ossianesca «la mia bassa tomba» e si darà slancio piú appassionato al finale con la replica dell’«Egli» iniziale). Qui tale prosa poetica ha la sua misura migliore in questo passare da toni idillici ad elegia con la creazione di un incanto suggestivo infinitamente piú sicuro di quello delle poesie omogenee dell’adolescenza, ma sempre rivolto ad adibire colori e paesaggio, insieme alle sfumature sentimentali, ad un descrittivismo lirico meno impetuoso e potentemente spirituale di quanto avverrà nei movimenti piú intensi del secondo Ortis e nel Foscolo maturo dei piú grandi sonetti.

Come si può dire anche della lettera XV, con la scena di Teresa all’arpa che costituisce come la fine ed il culmine di una prima parte ideale prima della pausa delle lettere padovane di cosí vario valore e chiuse coerentemente e festosamente con il ritorno ai colli, al “paradiso” ancora intatto del primo Jacopo in cui la passione politica è cosí generica e come momentaneamente limitata in questo ritorno da artista e da poeta bisognoso di una espressione conclusiva della sua gioventú e della sua poesia.

In questa redazione la scena dell’arpa, della contemplazione di Teresa non ha fremiti di disperazione (che nella lettera del 3 dicembre nel secondo Ortis è invece elemento essenziale della scena: «come poss’io immaginarti, o celeste fanciulla, e chiamarti dinanzi a me in tutta la tua bellezza, senza la disperazione nel cuore?»), vive tutta nel tono dell’incanto della bellezza e dell’armonia, su di un tenue affondo di malinconia non precisata, appoggiata a citazioni poetiche e soprattutto alla traduzione foscoliana del ’94 del famoso frammento di Saffo:

Sparir le pleiadi,

sparí la luna;

è a mezzo il corso

la notte bruna:

io sola intanto

mi giaccio in pianto.

I limiti letterari della pagina sono evidenti e ben fece il Foscolo a ridurli energicamente nel rifacimento del 1801 (senza riuscire a sfuggire il pericolo di stonature nel rimaneggiamento), ma certo l’unità in quell’impasto piú mediocre è piú facile.

E la frase piú significativa («Oh! io mi sento sorridere tutta l’anima e scorrere in tutto me stesso la voluttà, che allora m’infondeva quel suono») e la descrizione della bella Teresa («Era ella neglettamente vestita di bianco. Il tesoro delle sue nere chiome disciolte velava parte della sua spalla destra e del seno, e scendeva a far parere piú candido l’ignudo braccio, che mollemente. accompagnava le rosate sue dita mentre arpeggiavano fra le corde. Posava un suo piede sui pedali dell’arpa, e sebbene mi fosse semirapito dalla veste e da un scarpino color di giacinto, io mi sentivo una certa delizia nel contemplarlo»; p. 100), inferiore a quella piú intensa del 1801 («Era neglettamente vestita di bianco: il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente; tutto, tutto era armonia, ed io mi sentiva una certa delizia nel contemplarla»; p. 271), rientrano assai bene nel tono del libro e si avvicinano persino facilmente alla descrizione della signora veneziana delle lettere padovane.

Nella lettera XV il ritorno della strofetta di Saffo è anche l’indice della utilizzazione da parte del Foscolo del ’98 di quel primo momento classicistico, di culto della bellezza, proprio nel periodo in cui il Foscolo sta per riprendere quel motivo e portarlo ad altezza lirica nella ode per la Pallavicini. In questo senso la lettera XVII da Padova (che ha in generale la funzione di contrapporre la società galante e frivola al “paradiso” dei colli, la patrizia corrotta a Teresa virtuosa) – cosí interessante per i legami Ortis-Sesto tomo dell’io e per i precedenti di Didimo Chierico – offre un esempio di abilissima stilizzazione (quasi Savioli, Parini e Pope portati in prosa e animati da qualche umore sterniano) sul tema della bellezza elevata e ironizzata nello stesso tempo.

Pagina essenziale e veramente affascinante nel suo gusto squisito, che rivela una mano giovanile geniale e già di vero stilista, sulla linea che va fino alle Lettere dall’Inghilterra e che verrà rafforzata e rinnovata dalla traduzione sterniana. Ma già prima di quell’essenziale esercizio, voluttà e distacco, ironia ed eleganza avevano prestato le loro sfumature ad uno scrittore appassionato e insieme capace di sinuosa raffinatezza e di nuova, personale utilizzazione dei mezzi stilistici del neoclassicismo settecentesco, prima della sua grande sintesi romantico-neoclassica. Introduzione e mediazione fra le odicine giovanili e l’ode alla Pallavicini, questa pagina subí poche modificazioni nella ripresa del 1801-1802, rappresentando un risultato poco migliorabile e un tono raggiunto ed esemplare anche nel contrasto con Teresa e l’aura mistica che circonda la sua bellezza e che prelude al clima piú deciso e assoluto dell’Ortis secondo («Chiamandomi a mente quel fortunato mattino, mi ricordo che non avrei osato di respirar l’aria che la circondava, e tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per adorarla»; p. 103).

E in conclusione mi pare molto importante che la lettera padovana sia tutta già realizzata nel ’98, assicurando cosí la nascita precoce di questo tono e la forza stilistica che su questa linea precocemente il Foscolo raggiunse.

Dopo la parentesi del viaggio a Padova, il tono elegiaco (con un’abbondanza sempre maggiore di spunti alti, di avvii alle riflessioni pessimistiche che nel secondo Ortis prenderanno uno stacco sempre piú decisivo e che qui vengono ancora attutite) va prevalendo e la storia di Lauretta (che qui non è staccata come nel secondo Ortis in Frammenti distanziati e a lor modo conclusi) collabora nella lettera XXX ad accrescere l’atmosfera dolente e nostalgica, ad aprire la strada al tema della compassione, in un alone di tenerezza sentimentale che non manca però di accordarsi con una dolcezza di idillio e con una estrema grazia di descrizione paesistica («Una sera d’autunno, la tacita luna appena si mostrava alla terra, riflettendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che, accompagnandola, l’andavano tratto tratto coprendo e che, sparse per l’ampiezza del cielo, rapiano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti ai lontani fochi dei pescatori, e al canto del gondoliere, che col suo remo rompea il silenzio e la calma della oscura laguna... Quand’io penso all’avvenire e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo, e mi abbandono colla memoria ai giorni passati, io vo per lungo tratto vagando sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare e i fuochi lontani e il canto del gondoliere», p. 120).

Nel tono elegiaco e nel contemporaneo insistere sul tema della compassione e della sventura, vengono affiorando movimenti piú drammatici (la corsa pazza sulla montagna nella lettera XXXV, eco chiara del finale del Werther) e il tema del sepolcro e della morte che anima la pagina famosa della XXXVII (13 maggio dell’Ortis milanese) trova espressioni sempre piú frequenti al di là del tono beato di idillio che prevaleva nelle prime lettere, che si era alternato poi al centro con il tono elegiaco, e che verso la fine dell’Ortis bolognese è andato scomparendo.

I temi piú tipicamente e duraturamente foscoliani si fanno sempre piú luce in quest’ultima parte, che infatti venne ripresa con minori tagli nella redazione del 1801. Ma tuttavia anche in lettere intonate fra elegia e lirica solenne o in cui si presentavano movimenti decisivi della poesia foscoliana («I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto dalle braccia amorose di chi sta per raccogliere l’ultimo nostro sospiro. Geme la natura perfino nella tomba e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte...», p. 126) il limite di questo primo Ortis non manca quasi mai di farsi avvertire nella sua facile coerenza romanzesca, nel suo facile languore preromantico, nell’eccesso di sensibilità da «anime belle», nell’alone letterario accresciuto dai troppi riferimenti a poeti e a citazioni poetiche.

E si pensi, come esempio conclusivo, alla lettera XLV su cui il romanzo si interrompe e che doveva portare toni di dramma disperato (la lettera d’addio a Teresa e prima della partenza dai colli Euganei al ritorno di Odoardo). In mezzo ad esclamazioni e puntini sospensivi che invano cercano di addensare aria di tragedia e accentuano invece la tenerezza convenzionale da romanzo settecentesco, le raccomandazioni piú vive riguardano libri e letture: «Tu frattanto accogli il Werther, l’Amalia, la Virginia e la Clarissa. Questi libri, che sono stati i compagni della nostra solitudine, t’ispireranno una dolce malinconia e ti faranno spargere sull’infelice giovane un sospiro di rimembranza. O mia Teresa! questi sono forse deliri; ma l’uomo sommamente misero sente con passione queste cose, che sfuggono a chi è felice: il cuore, quando ha bisogno di consolazione, non ne lascia perdere alcuna» (p. 141). E nella lettera precedente ancora suono d’arpa, lettura di Paul et Virginie, arie patetiche, dolce malinconia.

I germi ortisiani piú vivi e le pagine già realizzate (specialmente in direzione idillico-elegiaca ed elegiaca) troveranno sviluppo e sistemazione piú viva e potente nell’Ortis milanese, anche se di fronte a questo il romanzo del ’98 gode di una coerenza piú facile e d’un piú facile equilibrio.

In complesso il primo Ortis è chiuso in un cerchio di sensibilità preromantica, ad intonazione prevalentemente idillico-elegiaca (anche se si può naturalmente presumere uno scatenarsi piú drammatico e passionale nella seconda parte), e gli elementi piú nuovi e piú validi per il futuro svolgimento della poesia foscoliana (ma anche il motivo idillico-elegiaco o quello della bellezza elegante e preziosa sono essenziali nella poesia del grande Foscolo) vi si affacciano con una certa misura e lentezza. Ché appare chiaro come in questo primo Ortis la preoccupazione di romanzo poetico concluso e a suo modo armonico fosse assai forte e contenesse sfoghi ed esuberanze autobiografiche e liriche anche nella ricerca di uno stile, coerente sulla sua base essenzialmente idillico-elegiaca. Ed in tal senso mi sembra chiara la maggiore vicinanza di questa redazione al Werther goethiano, come la Laura dové risentire in particolar modo della Nouvelle Héloïse, la cui vicinanza si risente particolarmente nelle parti presumibilmente “lauriane” come la scena del bacio.

Se Rousseau forní spunti di pensieri e di singole scene e soprattutto influí come «maître des âmes sensibles» (e non solo la Nouvelle Héloïse, ma con le Rêveries d’un promeneur solitaire e le Confessioni) e come modello di un linguaggio eloquente e sensibile, ardente e poetico, fu il Werther direttamente o indirettamente attraverso le imitazioni e le contaminazioni con la Nouvelle Héloïse (Wertherie del Perrin, le Lettres de deux amants, habitants de Lyon del Léonard) a dominare la fantasia del Foscolo con la sua struttura di romanzo autobiografico (autobiografia mediata e distaccata ben diversamente che nel Foscolo), con il suo svolgimento da idillio a idillio elegiaco e a finale dramma, con la vitalità dai suoi personaggi e con la ricchezza di episodi secondari introdotti a confortare le varie gradazioni del romanzo in una comune aria sentimentale ed effusiva. Orbene, la vicinanza al Werther (accennata ambiguamente dal Foscolo nella sua lettera del 1802 al Goethe con un «forse» veramente strano, se non si vuole accettare l’ipotesi dello Zschech[11] che pensa si alluda con il «forse» all’influenza indiretta attraverso le imitazioni francesi, e poi negata proprio per la prima redazione nella Notizia bibliografica per un malinteso bisogno di originalità d’«invenzione») è tanto piú chiara quanto piú la si consideri allo stadio 1798, in cui l’elemento politico è quasi assente e il predominio del legame romanzesco, dello sviluppo e del tono idillico-elegiaco è piú che evidente. Curiosa storia quella del celebre paragone Ortis-Werther che appassionò studiosi italiani e tedeschi e che tuttora ricompare in sede di esercitazioni scolastiche! Fu il Foscolo a confondere le carte con il suo gusto di trasformazione della realtà autobiografica ricollegando il secondo Ortis al Werther per liberare il primo da quell’influenza. E certo un diretto paragone fra tutto l’Ortis e il Werther conduce ad una diversificazione piú che sufficiente a salvaguardare l’originalità foscoliana dalla possibile condanna di un metodo critico superato.

E d’altra parte nel motivo piú profondo del ritratto di Jacopo, della sua intima drammaticità e complessità, non vi è dubbio che anche nell’iniziale vita del ’98 la differenza e la peculiare originalità del fantasma poetico foscoliano è fuori discussione, come è fuori di discussione di fronte al Saint-Preux rousseauiano. Ma nella lettura del primo Ortis, nel suo svolgersi e nella stessa gradazione di tinte progressivamente piú cupe, oltre che in particolari di costruzione e nell’essenziale disegno di romanzo sentimentale con la sua collocazione di paesaggio, con il suo sfondo di umanità semplice e rousseauiana (il Werther a sua volta risentí dei romanzi sentimentali inglesi e del romanzo rousseauiano, malgrado la giusta, ma parziale affermazione di Goethe in Poesia e verità circa l’originalità e necessità interiore del Werther), è impossibile non riconoscere la presenza del Werther non solo attraverso la suggestione wertheriana che poteva essere giunta al giovane autore di Laura (e da qui il «forse» del 1802) anche senza una diretta lettura[12], ma attraverso un contatto indiscutibile che aiutò lo sforzo costruttivo del Foscolo nel 1798.

Senza ripercorrere il confronto fra il frammento foscoliano piú ricco e piú debole e l’opera goethiana già matura e splendidamente filata in un getto felice e distaccato, e senza insistere sui riscontri particolari – in parte fatti dallo Zumbini[13] –, si ricordi la somiglianza non solo fra Werther e Jacopo ma fra Alberto e Odoardo, fra Carlotta e la Teresa piú bonaria, saggia e familiare del primo Ortis, fra le due fanciulline, fra Lorenzo e Guglielmo, fra Leonora e Lauretta, si ricordi il comune ossianismo, il disprezzo dei libri non essenziali, ed insieme le esclamazioni dolenti, le riflessioni sugli uomini («Umana razza!» in Ortis, «Ah, perché siamo fatti cosí!» in Werther), le scene idilliche della fonte e del villaggio, le citazioni e il riferimento a poeti nell’aura letteraria e sentimentale che circonda con maggior misura anche Carlotta («ella appoggiò la mano sulla mia e disse: “Klopstock!”, io ricordai l’ode sublime a cui ella pensava in quel momento, e m’immersi nel torrente di sensazioni che la sua parola aveva destato in me», 16 giugno) e moltissime situazioni fra beatitudine e languore tormentoso, fra pienezza di esistenza ed elogio della passione contro il “filisteismo” che Goethe sempre condannò e contro cui piú tardi difese violentemente il suo Werther («Oh le persone ragionevoli... Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete invece cosí impassibili, cosí estranei a tutto questo...»; 12 agosto).

Tutto ciò non diminuisce minimamente l’originalità intrinseca dell’Ortis in genere, ma conferma la particolare natura piú letteraria e piú romanzesca del primo Ortis, la sua minore violenza drammatica, il suo limite verso un’espressione dell’animo foscoliano piú complesso e piú personale, quale si realizza piú direttamente nell’Ortis milanese.

3. L’«Ortis» milanese

Ricco di nuove esperienze di vita e di letteratura (ma soprattutto di vita in anni eccezionali di attività, di viaggi, amori), il Foscolo nel 1801 – come sappiamo – si accinse a terminare l’Ortis interrotto due anni prima e anzitutto ritornò alla prima parte in cui il nuovo amore per Isabella Roncioni portava inevitabilmente cambiamenti di situazione (Teresa fanciulla) e un nuovo soffio di passione insieme piú intensa e piú ideale, piú tragica ed alta. Biografia e letteratura si intrecciano al solito indissolubilmente nel Foscolo: in certo senso l’amore per la Roncioni viene già colorato dai riflessi della vicenda ortisiana, come si era fissata nelle “quarantacinque lettere” e come viveva nella fantasia foscoliana e d’altra parte la viva esperienza di quell’amore tendeva, allargava e portava stimoli ad uno svolgimento dell’Ortis, romanzo dell’anima e sempre piú vicenda in funzione di una espressione sostanzialmente lirica.

Sí che proprio sulla coincidenza[14] (Foscolo vide spesso nella sua vita coincidenze tra fantasia e vicende ed in questo periodo egli sentí particolarmente vita come poesia e poesia come vita sul generoso piano romantico di vitalità estrema e di totale espressione di sé) della partenza fiorentina, con rinuncia ad Isabella promessa ad altri, e della interruzione della XLV lettera sulla partenza di Jacopo, vi furono persino chiari passaggi da romanzo a vita, da vita a romanzo.

La prima parte uscí nel dicembre 1801 presso l’editore Mainardi, ma fu ancora rivista nel 1802 per la definitiva edizione del «Genio tipografico» che egli annunciava al Cesarotti (12 settembre 1802, Epistolario, I, p. 147) con le significative parole: «Fra un mese avrai in nitida edizione... una mia fatica di due anni, ch’io chiamo il libro del mio cuore. Posso dire di averlo scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe. Da quella conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtú, le mie passioni, i miei vizi e la mia fisonomia. Per ora dunque non ti parlo di me».

Evidentemente a questo punto della composizione effettuata, il Foscolo vide l’Ortis secondo come una nuova opera («di due anni»: 1801-1802), in cui il primitivo mito poetico del suicidio trovava integrale realizzazione e coerente preparazione nell’aria di catastrofe che circola sin dalle prime pagine, anche se nella prima parte è parzialmente attenuata dalla resistenza dell’intonazione idillico-elegiaca preesistente e ravvivata, ma non totalmente dissolta. Il suicidio del nuovo Jacopo corrisponde alla nuova concezione dell’urto fra ideali-illusioni e realtà in cui il protagonista non cerca rifugio duraturo nell’idillio e nel compianto nostalgico e si suicida per eccesso, non per difetto di intima vitalità, per superba affermazione di superiorità sulla bassa realtà compresa nelle sue condizioni effettive da un esame pessimistico che nel primo Ortis non era giunto a conclusione.

La morte del primo Ortis, se la piega iniziale non fosse stata corretta, sarebbe avvenuta in una condizione di disperazione morbida, erotica, in tono di elegia, mentre la morte del nuovo Jacopo è a suo modo un’affermazione di forza, una sfida eroica, preparata in lui fin dal ’97 (ode Ai novelli repubblicani) e non esaurita neppure idealmente nell’Ortis perché è condizione sempre presente al Foscolo e dà alla sua vita la sicurezza di una coraggiosa disposizione a non subire un istintivo attaccamento alle cose, ad affermare sempre la sua superiorità e la sua nobiltà.

Giustamente il Fubini nella sua Lettura dell’Ortis insiste sul raddrizzamento drammatico dell’opera ottenuto con la prima nuova lettera cosí ex abrupto, cosí fremente e perentoria: «Il sacrificio della patria è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e le nostre infamie», e giustamente parla di tragedia alfieriana, di eroe alfieriano calato nella realtà, ecc. Ma nella nuova valutazione dell’alfierismo foscoliano – tema importantissimo della nuova critica e particolarmente rilevato dal Russo e dal Fubini – quest’ultimo porta una sforzatura ed il pericolo di ridurre l’Ortis maturo ad una ripresa – sia pure in carne e sangue – di elementi alfieriani. Certamente l’alfierismo del Foscolo, già cosí forte nel Tieste e nelle prime poesie politiche, continua nel secondo Ortis, nell’elemento politico, nel mito romantico-nazionale, come nei sonetti il suo petrarchismo risente di atteggiamenti alfieriani; ma nell’Ortis – a parte la ricchezza di motivi idillico-elegiaci preesistenti e pure essenziali in questo quadro riassuntivo di tutto il Foscolo giovane – anche nell’atteggiamento centrale dell’uomo appassionato, impegnato nella realtà e nella storia in una lotta disperata, ma non elusa, sino all’affermazione del suicidio, si avverte una inconfondibile complessità che supera l’alfierismo con una coscienza piú viva della storia, con un lirismo piú vario, con il senso della bellezza serenatrice che supera l’ambito spirituale e la monotonia degli eroi alfieriani.

Nel nuovo Ortis, e soprattutto nella seconda parte, i limiti del «libro del cuore» si allargano non solo per accogliere i motivi maturati piú precisamente negli anni di intervallo (nella redazione ’98 i motivi politici già vigorosi furono sacrificati in un momento di ritorno piú pieno allo stato d’animo amoroso e all’intonazione idillico-elegiaca), ma proprio nel senso di un quadro drammatico e integrale dell’animo in movimento sull’essenziale ritmo della passione in contrasto con la mediocrità e la freddezza ragionevole, in tormento nella lotta sdegnosa con i limiti della realtà dura e dominata dalla forza e da ferree leggi naturali.

Ecco il motivo essenziale dell’Ortis venuto in piena coscienza, pur nella mescolanza di strati, di toni già a noi noti e di nuovi toni piú imperiosi e non sempre raggiunti nella loro urgenza vitale: tali da esser bruciati in arte solo piú tardi e in nuove sintesi piú potenti di ispirazione tutta lirica, in nuovi accordi di poetica e di poesia piú matura e completa.

Ma sarebbe erroneo considerare l’Ortis maggiore solo come un vivaio di motivi che attendono gli anni della grandezza per accendersi liricamente nei sonetti maggiori, nei Sepolcri e nelle Grazie: esso ha anche la sua vita nella sua qualità di autoritratto in movimento, di tragedia lirica in prosa poetica, di Zibaldone drammatico-lirico. Opinioni, casi, virtú, passioni e vizi (ma la parola va presa in senso tutto romantico e collegato come le virtú, le opinioni e i casi all’essenziale parola «passioni»), secondo la lettera al Cesarotti, vivono nella concezione del nuovo Ortis, in una iniziale spinta di espressione verso la lirica nella loro larga base vitale e letteraria, nel loro ingorgo di realtà e fantasia.

Sotto le cosiddette due anime c’è un nuovo e piú potente senso della “passione” e insieme una ricchezza di visione interna, di rappresentazione del «cupo ove gli affetti han regno» varia e potente in un movimento largo, in un ritmo intenso che dà nuovo valore alle stesse scene idilliche ed elegiache, alle descrizioni di «bello stile», al culto neoclassico della bellezza.

Vediamo anzitutto i cambiamenti dello schema romanzesco e dei personaggi avendo ben chiaro che il Foscolo, se curò naturalmente anche una certa vivacità di romanzo, si scosta sempre piú dal “romanzesco”, dal puro gusto della vicenda, e tratta i numerosi episodi e i personaggi soprattutto per la loro funzione piú che per la loro singola evidenza e per il loro particolare interesse.

Anzitutto colpisce la trasformazione di Teresa divenuta piú alta («celeste creatura») e piú appassionata e vicina all’animo di Jacopo, piú «infelice», meno borghese e idilliaca, piú investita dalla stessa fiamma di Jacopo e insieme piú sollevata in bellezza, in figura che assomma qualità spirituali e qualità di bellezza da “dea” appassionata e perfetta, liberata da tutta la storia complicata del primo matrimonio, della maternità, del lungo e saggio amore per Odoardo. Piú “fanciulla” (la bionda Isabella sostituisce la matronale e bruna Teresa Monti) e insieme piú appassionata e celeste.

Odoardo poi passa dai deboli tratti originari di uomo buono, ma poco geniale, addirittura a figura in antitesi di Jacopo, di vera “scelleratezza” (non il vizio appassionato, ma la assennatezza senz’anima, il freddo calcolo senza passione), da un riuscitissimo disegno iniziale fin all’esagerata caricatura della gita ad Arquà in cui è rappresentato in mezzo alla incantevole bellezza della campagna come se «andasse tentone fra le tenebre della notte o ne’ deserti abbandonati dal sorriso della natura» (lettera del 20 novembre).

Trasformazione che deriva dalla rottura del clima di patetica simpatia generale del primo Ortis, dall’accentuazione del contrasto fra la passione generosa e infelice e il buon senso gelido e trionfante, dall’atteggiamento foscoliano piú intenso e piú profondamente romantico che lega il protagonista sempre piú alla natura (e ad una natura piú ricca di bellezza, ma anche di impeti e di sublime grandiosità) e agli “infelici”, appassionati e generosi.

E nel disegno generale, coerentemente al nuovo ritmo e alla nuova larghezza, impresso al romanzo, tutto gravita piú decisamente verso la catastrofe presentita sin dall’inizio.

È in questa direzione di maggiore tensione drammatica che l’elemento politico, la passione politica, nei motivi romantici di libertà e di patria, ha tanta importanza nel nuovo Ortis e, mentre ne provoca la maggiore oratoria, rappresenta lo stimolo che sommuove tutta l’opera. Non opera di ispirazione e scopo unicamente politico come lo vide esageratamente il Foscolo nel saggio Hobhouse-Foscolo[15], ma opera in cui la passione politica, piú direttamente capace anche di legare l’esplosione romantica della personalità insofferente di limiti ad una totale riflessione sulla vita, agisce indubbiamente da stimolo indispensabile rinforzando e drammatizzando i sentimenti fondamentali già affiorati nel primo Ortis, quei motivi del pessimismo foscoliano, che a loro volta, come piú intimi e piú genuinamente poetici, riscaldano e rendono piú poetico e complesso lo stesso motivo politico.

Voglio dire che se il motivo politico caratterizza facilmente il nuovo Ortis e fa da fermento e da stimolo al dramma “zibaldonesco”, esso in realtà vive nella sua genuina originalità romantica e nella persuasione foscoliana, in quanto sottintende e mette in valore il piú profondo mondo della passione e del pessimismo foscoliano senza i quali sarebbe retorica e velleità pratica.

E d’altra parte l’elemento politico si manifestava cosí vivo e stimolatore nella redazione 1801-1802 anche per la ricchezza accresciuta di esperienze dal ’98 in poi (esperienze di vita militare e politica che avevano trovato espressione anche in prose politiche come la nuova dedica genovese a Bonaparte dell’ode omonima, e il Discorso su l’Italia allo Championnet del 9 ottobre 1799 in cui, prima della conoscenza del Lomonaco, il Foscolo pare prevenire alcune delle affermazioni piú tipiche del Rapporto al Cittadino Carnot sulla necessità dell’indipendenza e unità italiana per una sua funzione nel grande fronte delle repubbliche democratiche europee[16]), sí che dopo la delusione di Campoformio un realismo sempre piú esperto ed amaro e un bisogno di impegno sempre risorgente superano la parentesi di evasione rappresentata dal “paradiso” idillico dentro cui si svolgeva il primo Ortis e meglio giustificano l’insistenza del motivo politico specie in direzione patriottica nel nuovo Ortis. E non solo nelle lettere iniziali e drammatiche ci si allontana decisamente dal tono di abbandono e di separazione dalla politica che preparava nel primo Ortis l’immersione completa nell’idillio paesistico e sentimentale, ma durante tutta la prima parte, pur nel prevalere del motivo amoroso e in mezzo a brani descrittivi ed elegiaci, mai manca un impeto che assicura la vitalità del motivo politico e la sua presenza in funzione di drammaticità mai assopita duraturamente. Come quando, durante la gita ad Arquà, alla confessione da parte di Teresa della sua infelicità si aggiunge l’esclamazione di fronte alla casa del Petrarca in rovina: «O Italia, placa l’ombre de’ tuoi grandi!» (Prose, I, p. 267).

Finché poi nella seconda parte, durante il pellegrinaggio angoscioso dell’esule in patria, il dramma politico prevale decisamente. Anche il motivo amoroso del resto entra con ben altra forza che nel primo Ortis, in cui si insinua in mezzo al godimento dell’idillio familiare per gradazioni assai misurate, mentre qui la vista di Teresa già si preannuncia «fatale» e la confidenza durante la gita ad Arquà («Sono infelice») precisa ben presto il carattere stesso dell’amore che sorge con il carattere di un’estasi appassionata («la divina fanciulla!») in maniera piú staccata ed assoluta (il tema dell’«aurea beltade» che si libererà completamente nella seconda ode alla Arese) e con il carattere drammatico della infelicità. Cosí nella ripresa delle scene ispirate dal motivo amoroso vengono tagliati i particolari di piú facile tenerezza e di inclinazione estetizzante (le citazioni poetiche) o – dove rimangono come residuo recuperato della primitiva situazione sentimentale e poetica – vengono inserite in un bisogno piú risentito, meno vagamente romanzesco, piú drammatico, in cui la scena del bacio viene a costituire un culmine piú deciso pur nella ripresa di alcuni toni giovanili del proto-Ortis. Tanto che di fronte all’esaltazione della lettera del 15 maggio («dopo quel bacio io son fatto divino...»), in cui la descrizione del lago dei fonticelli è ripresa e collocata con ben altra forza e con coerenza maggiore, intorno al tema meglio individuato della felice illusione dovuta alla bellezza, ecco subito la lettera del 21 maggio («Oimé che notti lunghe, angosciose!... ahi lampo, tu rompi le tenebre, splendi, passi ed accresci il terrore e l’oscurità...»; p. 311) che riporta decisamente il tono di dramma.

Nella generale presenza di un ritmo piú drammatico e intenso (di cui il motivo storico-politico è l’esponente piú nuovo e piú chiaro, ma in cui prende nuovo accento il motivo dell’amore ed il fondamentale motivo del pessimismo e delle generose, eroiche illusioni), nella prevalenza di un autoritratto movimentato e tempestoso (mi sono ritratto nell’Ortis «con tutte le mie follie», dirà il Foscolo all’Arese), anche le pagine piú distese – residuo di precedenti momenti – vengono in qualche modo animate dall’aria che circola intorno e, se perdono la facile continuità che avevano nel primo Ortis, acquistano un rilievo piú nitido ed una diversa funzione di contrasto con le pagine piú decisamente drammatiche. E d’altra parte non stonano se non nei loro margini inferiori di effusione romanzesca, di idillio lezioso e d’elegia lacrimosa.

Per fortuna molte pagine e molte battute piú esteriori, romanzesche, di languido preromanticismo, caddero facilmente nella trasformazione dell’Ortis insieme alle vicende di Odoardo e di Teresa vedova e sposa felice, ma in molti altri casi la nuova concezione ortisiana venne ad urtare nei residui meno assimilabili di quella precedente e il Foscolo dové compiere un lavoro di assestamento minuto e non sempre felice. Mentre nel loro accento piú puro e nelle loro parti piú realizzate anche i toni idillici e elegiaci del ’98 trovarono il loro posto e la loro funzione, come d’altra parte le punte di quelle meditazioni ed esclamazioni pur eloquenti e liriche sulla vita, sulla natura e sulla sorte degli uomini, che nel vecchio Ortis erano come smorzate ed avvolte in un’aria piú tiepida, vennero liberate ed acquistarono il loro massimo vigore.

Se dunque nel 1801-1802 in generale il Foscolo costruí il «libro del suo cuore» sulla nuova intuizione centrale di una espressione piú drammatica, di un autoritratto movimentato e ricchissimo, ma appuntito e fortemente individuato in atteggiamenti eroici di catastrofe, dové per la prima parte compiere un lavoro particolare, che ci mostra meglio il distacco e le vicinanze fra i due Ortis e ci dà un utile esempio di come il Foscolo lavorava, nel movimento del suo animo creatore e del suo gusto.

Nel rifacimento della prima parte, mentre vi immetteva il nuovo ritmo drammatico e tagliava alcune parti ormai eterogenee anche alla vicenda in parte cambiata (ad esempio le scene patetiche della X lettera, l’incontro idillico con Odoardo nella III), il Foscolo si trovava in una posizione assai complessa, sentimentale e stilistica. Operava su materiale già consolidato e con il suo animo insieme critico e nostalgico tendeva insieme ad accordare il piú possibile il vecchio testo alla nuova concezione ed a salvare il piú possibile della vecchia espressione. Voleva insieme realizzare un nuovo disegno piú potente, drammatico-oratorio per nuovo slancio lirico, e voleva anche rispettare il piú possibile la sua confessione poetica nella sua precedente espressione, mantenere le gradazioni diverse che avevano arricchito il quadro del suo animo. C’erano pagine realizzate che egli non voleva perdere, toni che non voleva rinnegare, sia pure adattandoli ad una nuova funzione. Cosicché (con un procedimento simile a quello notato per il sonetto Quando la terra è d’ombre ricoverta) il Foscolo in alcuni casi tagliò risolutamente, in altri riportò integralmente affidando a nuovi brani il compito di animare e movimentare i momenti piú deboli di queste vecchie pagine, in altri casi ancora rinforzò con brevi aggiunte, con qualche correzione tempestiva, con qualche sostituzione di frasi e persino spostando in luogo piú opportuno. E mentre spesso il risultato di questo complesso lavoro fu di sicuro miglioramento in accordo con la nuova concezione ortisiana, a volte rimase una stonatura ineliminabile.

Cosicché, in questa composizione a strati, nella prima parte non si può eliminare l’impressione di urti e dislivelli che poi le redazioni ultime (1816 e 1817) nel loro compito di revisione piú modesta di particolari lasciarono intatta.

Esempio di una rielaborazione e trasformazione generale, pur sulla base e nella ripresa di pagine già esistenti, si può avere nella lettera del 20 novembre che riprende la seconda parte della lettera X rimaneggiata, tagliata e sostituita in piú parti con l’introduzione di motivi caratteristici della nuova edizione.

All’inizio si trovano le stesse frasi di convenienza a Lorenzo con l’abolizione di una frase scherzosa e troppo intonata all’idillio beato di questa parte delle “quarantacinque lettere” («la felicità è l’oppio dell’amicizia»), poi subito vengono saltate la scena patetica familiare già da noi notata di Odoardo e Teresa, quella successiva del giardino e della narrazione dei primi amori dei due sposi, e la lettera riprende la parte della gita ad Arquà che metteva in primo piano nella lettera X il motivo idillico-borghese e utilizzava due lunghi brani del Monti. Nella nuova redazione, movimentata e spezzata nel momento culminante della rivelazione di Teresa «Sono infelice», i versi montiani sono assorbiti nella prosa (ed ecco una tendenza piú spiccata nella nuova redazione: sciogliere in prosa poetica dei versi propri o altrui respingendo il procedimento piú esterno di poetizzare un brano con l’appoggio di citazioni poetiche) e, piú che un accompagnamento allo svolgersi del romanzo, vengono a far corpo con la descrizione piú intera della bellezza della natura e di Teresa unite contro la caricatura di Odoardo. Ma, tutta nuovamente sollevata dalla ripresa «Sono infelice!» e dalla narrazione intensa della triste sorte di Teresa (ben diversamente avvicinata a Jacopo dalla comune infelicità che non la prima Teresa tutta compiaciuta dal suo primo e secondo matrimonio), la scena idillica del paesaggio di Arquà, ripresa tale e quale nella nuova redazione, fa sentire la sua inadeguatezza rispetto al tono piú teso della narrazione di Teresa e delle riflessioni agitate e frementi di Jacopo sui pregiudizi del padre della fanciulla. La sutura è imperfetta e il rinnovamento per contaminazione ed intarsio fa sentire l’ibrida coesistenza di condizioni di gusto diverse (e la scena di Arquà ha tutta l’aria di provenire da un periodo precedente al ’98 e dalla prima descrizione di Laura, tutta incentrata sulle immagini campestri e poetiche dei colli Euganei).

Nella lettera X tutto il tono era idillico ed anche i pensieri suscitati dalla casa del Petrarca erano tutti morbidi e languidi, mentre nella nuova redazione il motivo delle rovine, della sorte sventurata dell’Italia immemore dei suoi grandi, mescolato con l’accenno romantico alla sorte del Tasso porta a tutt’altra tensione ed implica un’inevitabile stonatura dei residui piú pittoreschi e romanzeschi della vecchia lettera, malgrado i tagli e le correzioni apportate dal Foscolo.

Il lavoro del Foscolo risulta piú spesso da minute operazioni che meglio mostrano il muoversi del suo gusto e la sua alta capacità stilistica. A volte un abile spostamento di frasi e di parole (e non mancano spostamenti anche di intere lettere, che nell’Ortis milanese vengono portate piú verso l’inizio in un gruppo di lettere piú festose e vivaci) porta una conquista di nuovo rilievo, come quando l’esclamazione «Umana razza!» [che nell’Ortis ’98 concludeva quasi come sottolineatura piú sorridente che violenta le riflessioni insignificanti sull’indole maledica degli uomini (lettera VIII: «Per questa volta te la do vinta: ti ho descritto con amplificazione l’unico difetto di quell’ottimo giovane, e della sua virtú non ti ho fatto che un misero cenno. Umana razza!»)] viene spostata a concludere con ben altro vigore e slancio la lettera del 18 ottobre con la riflessione della naturale miseria degli uomini («Temo per altro che, spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò molto da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso. Umana razza!»).

A volte una piccola correzione serve a dare piú slancio al movimento già tenero ed elegiaco e a renderlo piú eloquente, drammatico, e quasi a sottolineare la piú intensa presenza del personaggio lirico centrale, come nella chiusa della lettera del 12 novembre (lettera XIV, con la stessa data), in cui la replica del pronome iniziale aumenta l’impeto nostalgico, rileva la personalizzazione di questo impeto e conclude con maggiore vigore: «Egli, egli innalzò queste fresche ombre ospitali!» (Prose, I, p. 262).

E quale diverso rilievo prende la famosa battuta di credo materialistico del 13 maggio («Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia, ecc.») dall’aggiunta del 1801 («... in quella muta oscurità mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura, dov’io mi andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni della inutile vita...»), mentre nel ’98 (lettera XXXVII) alla battuta seguiva subito goffamente: «In questo mentre mi sento pigliar per un braccio... O anima mia, come gli affetti patetici, che t’inondavano, si sono subito convertiti in piacere!... Era Teresa, uscita per incontrarmi».

E quale diversa importanza assume il brano famoso sulle illusioni liberato dal contesto leziosamente idillico ed ingenuo della lettera III e portato a concludere la lettera tutta piena degli effetti beatificanti del bacio di Teresa! Nella lettera III l’inno alla natura e alle illusioni cadeva in mezzo ad una scenetta di genere, mentre che nella lettera del 15 maggio trova ben altro risalto nel legame con l’avvenimento di piú alta gioia delle Ultime lettere e si appoggia non al goffo «diguazzandomi», ma all’esclamazione forte che termina la lettera in un appassionato ritorno ascendente «e se questo cuore non vorrà sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani e lo caccerò come un servo infedele». (E quell’inno alla natura nella sua nuova ampiezza o serietà pare ben legarsi ad un brano del Sesto tomo dell’io che è la chiave piú adatta a capire l’incontro foscoliano di amore e odio per la natura. «O natura! accogli quest’inno dei tuoi figli. I mortali dovrebbero maledirti e renderti questa vita. Pianto, speranza, terrore e morte...: nostri elementi. Ma tu hai creato la Bellezza! e noi, adorandola, ti rendiamo grazie anche per i nostri mali», Prose, II, p. 174).

E nella bella lettera XXII (uno dei punti alti del primo Ortis sulla direzione di una lirica meditativa e descrittiva), nella descrizione che segue al bellissimo inizio («Umana vita! Sogno, ingannevole sogno...»), la redazione 1801 (lettera del 19 gennaio) con pochi tagli di aggettivi toglie qualche eccesso di colore e di sentimentalismo alla scena pur sempre involta nella sua grandiosa ed enfatica cadenza preromantica. Cade «orride» («le orride spalle dei colli»), cade «timido» («un timido raggio di sole»), cade «vedova» detto convenzionalmente della terra invernale, un retorico «già già mi parea» cede al semplice «mi parea», «giorno» sostituisce lo squillante «dí» e al posto dell’insipido «inclemente» subentra la forma decisa «mortale» («il ghiaccio mortale del verno»). Tutto si fa piú serio e si avvia a quel senso solenne di sciagura universale che ancora meglio sarà raggiunto nella redazione 1816 in cui anche al sole si predice una «carriera che sarà forse affannosa e simile a questa dell’uomo».

Un esempio complesso di questa rielaborazione, tesa a fissar meglio immagini, sentimenti e linea nonché a rinforzare i particolari e spesso le parole in un accordo piú intenso e piú limpido, può essere la lettera del 3 dicembre (XV dell’Ortis bolognese) in cui il motivo della bellezza e dell’estasi provocata dalla bellezza di Teresa all’arpa è rinforzato e nobilitato, depurato dell’eccessiva letteratura delle citazioni poetiche, ed in cui d’altra parte il senso di contaminazione e di sutura stridente è nel finale ben evidente.

Sempre fedele alla sua volontà di rafforzare e di precisare i singoli toni dentro una maggiore tensione drammatica, di liberare il suo libro, pur nel suo primo fondo preromantico, dall’eccesso della tenerezza e del colore (e, se qualche volta per reagire al tenero esagera troppo nella direzione opposta, la calma mano del 1816 ripristinerà la tinta meno estrema: come avviene a p. 307 per le nuvole prima «pallide», poi «squallide», poi nuovamente «pallide»), il Foscolo riprese la lettera XV, con la sua aria sentimentale e sensibile, (piena di suggestioni settecentesche e persino di stampe settecentesche da romanzo lacrimoso o da idillio tenero) e la corresse rinforzandola e insieme mantenendola nel suo tono iniziale reso piú sobrio e piú personale, liberandolo dall’eccesso di aura poetica costruita letterariamente (abolizione della strofetta di Saffo, del verso iniziale) e insieme arricchendolo di un tono piú estatico, di adorazione (il tono dei sonetti per la Roncioni e insieme il tono della «aurea bellezza») piú rilevato, piú distaccato, meno idillico.

Abbreviata la introduzione con la sua cadenza convenzionale e con la sua impacciata volontà di inutile spiegazione («Mi sono tosto avveduto che la nostra amica svegliava l’armonia, chiamandola quasi confortatrice e compagna de’ suoi mesti pensieri»), accordato un primo movimento gioioso con l’evocazione della donna nella sua bellezza celeste e nella sua sorte infelice e drammatica che mancava nella prima redazione («Come poss’io immaginarti, o celeste fanciulla, e chiamarti dinanzi a me in tutta la tua bellezza, senza la disperazione nel cuore?»), la scena dell’estasi e della contemplazione è resa piú assoluta con la scomparsa della strofetta arcadica e dalla stessa descrizione di Teresa piú semplice, piú priva di particolari familiari e di particolari di dubbia eleganza («lo scarpino color di giacinto»). La descrizione è poi rilevata alla fine dalla esclamazione «Tutto, tutto era armonia», assai in tono con questa aura piú appassionata e piú estatica, a cui è pur coerente la osservazione finale «Io non so dirti, mio caro, in quale stato allora io mi fossi: so bene ch’io non sentivo piú il peso di questa vita mortale». Ma, come nella descrizione di Teresa discinta non può non notarsi, come residuo della scena precedente, qualche breve traccia di tono piú cascante e convenzionale, cosí la frase «tutto, tutto era armonia» si contamina con una frase che aderiva naturalmente nel primo testo alla contemplazione dello scarpino («io mi sentiva una certa delizia nel contemplarlo») e ne esce un risultato ambiguo e insoddisfacente: «tutto, tutto era armonia, ed io sentiva una certa delizia nel contemplarla», dove quel «certa delizia» è inadeguato all’impressione di estasi assoluta che il Foscolo voleva creare nel 1801. E cosí la confessione di Teresa sorpresa in abito «discinto», piú adatta all’idillio mediocre del ’98, urta con la manifesta volontà dello scrittore di creare un’aria arcana, quasi religiosa a cui egli adibisce in un’altra contaminazione poco riuscita il verbo «adorare» e la frase finale già riportata. Evidentemente lo sforzo, in questo come in altri casi, non riuscí e nel confronto fra le due redazioni noi sentiamo le inevitabili cadute e i compromessi di questa rielaborazione nella sua operazione di rinnovamento e di conservazione.

Il limite piú grave del primo Ortis erano il “romanzesco” e il “lacrimoso” e il pittoresco eccessivo; e tali limiti dové vincere – senza riuscirvi sempre – il Foscolo del 1801 per adattare al nuovo ritmo le vecchie pagine e per salvare in queste le loro parti piú originali nel tono migliore dell’idillio e dell’elegia. Perché per la prima parte (donde un inevitabile senso di diversità fra le due parti malgrado il nuovo rilievo drammatico generale acquistato anche nella prima) bisogna pur dire che, come nel loro margine inferiore costituiscono limite di gusto piú scadente, pericolo di letterarietà, cosí nel loro accento migliore, nella loro maggiore nitidezza rafforzata nel 1801, i toni di idillio e di elegia rimangono essenziali nella prosa poetica foscoliana e capaci di risultati notevoli: specie il tono elegiaco quando nasce dai motivi piú fondi dell’animo dolente e nobilmente pessimistico del generoso, ma disingannato romantico. Piú legata all’Ortis ’98, la prima parte ne risente i difetti, soffre di contaminazioni poco riuscite, ma è anche piú libera dagli eccessi di enfasi che la seconda parte conosce nella sua tensione piú continua, piú alta ed esasperata.

Non mancavano del tutto nel primo Ortis ’98 brevi spunti di dramma, affacciati specialmente, insieme a piú chiari accenni pessimistici, nell’ultima parte (XLI-XLII) in coincidenza con il ritorno di Odoardo; ma naturalmente, nella ripresa del 1801, su quella prima base di tinte piú cupe si aggiungono immagini e movimenti appassionati, drammatici, convulsi, specie in questo primo momento in cui piú decisamente si abbandona l’aria piú tiepida delle “quarantacinque lettere”. Si affacciano con nuova violenza i temi della morte, del sepolcro, del dolore cosmico, ossessionante nelle lettere del 28 maggio, 29 maggio, 2 giugno, in cui ritornano le lettere XLI e XLII, e realizzato con singolare forza e risultato nella lettera del 2 giugno. «Oggi io sentivo gemere la foresta ai colpi delle scuri; i contadini atterravano i roveri di duecento anni: tutto père quaggiú! tutto. Guardo le piante che una volta scansavo di calpestare e mi arresto sovr’esse e le strappo e le sfioro, gittandole fra la polvere rapita dai venti. Gemesse con me l’universo!».

E dopo la descrizione esasperata della vita cupa di Jacopo nella lettera «Lorenzo a chi legge», mentre la concitazione della vicenda è aumentata dall’avvertimento di Teresa («Mio padre sa tutto»), le ultime lettere della prima parte accentuano persino esageratamente il tono drammatico, il ritmo battuto e convulso, per operare decisamente un distacco sicuro dall’impasto piú complesso della parte in cui le “quarantacinque lettere” avevano offerto la loro base essenziale e insieme le loro remore di diverso stato d’animo e di diversa poetica. Il ritmo si fa intenso e, quando riesce a vietarsi dispersioni e oggettivazioni troppo fisiche ed esteriori, si raddensa in mosse potenti e originali: «Il cielo è tempestoso, le stelle rare e pallide, e la luna mezza sepolta fra le nuvole, batte con raggi lividi le mie finestre».

Gli addentellati maggiori della prima parte in queste ultime pagine piú nuove sono – intorno all’essenziale ritratto in movimento dell’appassionato per desiderio di patria e di onore, dell’uomo in lotta contro la meschina e dura realtà in atteggiamento eroico («avea sempre un’aria assoluta») – il motivo del dolore cosmico, della natura in tempesta, del senso pessimistico e appassionato della vita e della morte. La prosa poetica è come scossa da un fremito piú appassionato e piú impetuoso in coincidenza con l’accentuarsi drammatico della vicenda e del ritmo.

Questa seconda parte riassume i fermenti piú intensi, piú maturi già apparsi nella prima parte e li unifica con uno scatto piú duro e drammatico, con una eloquenza nuova e appassionata in una vicenda a ritmo continuo ed intenso: ritmo che corrisponde a quel «pellegrinaggio angoscioso» che il Foscolo cosí chiama con quella decisa caratterizzazione romantica del suo animo in lotta, in cui, con piú energia, ritornano gli echi del Tieste, gli impeti eloquenti delle odi politiche del ’97. La figura di Jacopo, che giustamente il Momigliano considera la piú romantica della nostra letteratura, si precisa qui, al di sopra degli stati d’animo piú complessi e vari del languore, della tenerezza, della meditazione sulla realtà e della contemplazione della bellezza e delle «illusioni», nei limiti e nelle punte estreme indicati dal linguaggio intenso: «cuore sbranato», «cuore guasto», «funebri deliri e folli lusinghe», «affannosi deliri», «orride fantasie», «anima ardente e che pur vuole amare ed essere amata» contro «perfidia degli uomini».

C’è una nuova compiacenza e voluttà della morte, non piú elegiaca, ma intensamente funebre e concretata in immagini fisiche che rappresentano il limite peggiore di questa eccitata capacità di vedersi sulla via della catastrofe («io stesso palpo le mie ferite dove sono piú mortali, e cerco di inasprirle e le contemplo insanguinate»), che richiamano nelle loro punte piú spinte, e pur cosí nuovamente robuste, quel gusto realistico che sedimentava nell’animo foscoliano insieme a lontani sfoghi di adolescenza (i sonetti per la morte del padre) riportati nell’Ortis alla pari di tutti i motivi ed i toni che in quelle prime poesie del suo noviziato e della sua nascita alla vita del sentimento e della poesia abbiamo a suo tempo osservato.

Si può dire che, mentre nel lavoro di ripresa del 1801 il nuovo gusto drammatico ed eloquente viene in qualche modo a contaminarsi e a frenarsi nei toni piú idillico-elegiaci delle “quarantacinque lettere”, ed anzi nelle correzioni piú minute tende ad abolire le tracce del piú letterario “orrore” preromantico, qui, libero di espandersi e di esprimersi in maniera tutta nuova, il Foscolo riscatta e riprende le prime suggestioni di preromanticismo estremistico, se ne serve per un tono tutto romantico, meno descrittivo, nel senso della esaltazione del proprio mondo angosciato e in lotta con la realtà.

Tutto si fa nel linguaggio foscoliano piú corposo e scabro, come il paesaggio delle Alpi marittime, della Liguria, su cui il poeta indugia e che diventa in qualche modo simbolico per questa dura poesia del tormento («aggrappandomi sul dirupo della vita»).

E le pagine e le espressioni piú violente dominano tanto nella seconda parte che han finito per schiacciare nell’impressione dei lettori il ricordo delle pagine meno agitate e piú contemplative e meditative.

Ma a questo punto si noti come il ritmo del «pellegrinaggio angoscioso» cosí ricco e stimolatore di motivi foscoliani (la tomba illacrimata, i sepolcri dei grandi italiani, la figura dell’esule nei suoi «giorni perseguitati ed afflitti», l’acre senso della storia dominata dai conquistatori), cosí omogeneo alla punta estrema del ritratto in movimento e dello “Zibaldone drammatico”, congloba anche pagine ugualmente intense ed essenziali e pur meno agitate, piú solenni e meditative. In quest’opera cosí complessa intorno ad un nucleo unitario dinamico (in quest’opera che sembra storicamente la conclusione del preromanticismo e la premessa del romanticismo neoclassico di Foscolo e di Leopardi), mossa da un potente afflato tragico-lirico e oratorio-lirico sul tema fecondo e centralmente romantico e foscoliano della passione contro ragione (ma si precisi: «la passione è come il vento: ammorza le faci ed anima gli incendi»!), dell’animo ardente contro la perfidia del calcolo e della realtà inesorabile (ma si noti: non piú il titano sturmundranghiano e alfieriano, perché l’uomo romantico dell’Ortis fa i suoi conti con la realtà e se anche si afferma con la morte sente il valore della storia, dell’esempio, di una possibile vendetta futura, pur nel pessimismo piú intenso), non si ha mai un tono uniforme e la stessa enfasi accusata, dal De Sanctis in poi, nell’Ortis, cambia sfumatura, giustificazione, e addirittura in certe pagine coincide con una estrema decisione e concisione e si annulla in tono alto di meditazione e di contemplazione a lor modo tragicamente serene.

Certo i tre grandi risultati conclusivi degli anni ortisiani saranno i tre grandi sonetti e la grande ode, e non mancano pagine del carteggio con l’Arese e sonetti minori del 1801-1802 che possono figurare degnamente sul piano migliore raggiunto nell’Ortis, ma, nell’Ortis stesso, accanto ai notevoli risultati – pur cosí compositi – di alcune pagine della prima parte e alle punte piú livide e intense dell’«angoscioso pellegrinaggio», si alzano anche pagine interne o avvii di intensa poesia specialmente nelle pause (e pur sempre sul piano da questo creato) del ritmo drammatico.

Sono pagine di cui i motivi della morte volontaria e serenatrice, della bellezza della natura e della donna riavvicinate su di un piano piú alto e tragico rispetto a quanto avviene nella prima parte, si elevano dall’eccitazione della passione e del contrasto fra illusioni e realtà e raggiungono un tono di purezza, di canto meditativo, di contemplazione appassionata, ma non agitata. Tutto ciò che nell’Ortis si è venuto accumulando e organizzando come elemento di un ritratto lirico in movimento drammatico ed eloquente, di uno “Zibaldone” personalizzato ed esposto in azione, trova in queste pagine la sua condizione di soluzione, di superamento dentro ed in mezzo a questo continuo processo di mediazione di vita e di esperienza in letteratura e poesia. Un tono di disperazione senza fremiti, e che pure usufruisce dello scatto drammatico generale, del largo impeto eloquente (ma eloquenza basata non su di un vano urgere a vuoto, ma su di un forte senso della realtà storica, morale e politica), e riassorbe le cadenze piú musicali della prima parte, solenne e a suo modo religioso (riscattando l’eloquenza biblica che abbonda nella seconda parte e che addirittura invoca la precisa presenza della Bibbia con i suoi libri piú romantici: Giobbe, Ecclesiaste, Ezechia: «furori e malinconie di Bibbia!»), si alza sopra le scene del convulso viaggiare dell’esule in patria, sopra le descrizioni piú esteriori e teatrali degli ultimi giorni incupite dal grottesco episodio del delitto involontario (lettera del 14 marzo). E saranno le battute pariniane (di un Parini foscolizzato nel tono piú alto cui il giovane Foscolo poteva giungere nell’ideale superamento del suo animo in nuova saggezza tragica e dolente), sarà il canto alla morte da Rimini e quello alla natura del finale del 14 marzo, e infine il grande inizio dell’ultima lettera in cui ritornano, tutti rinnovati poeticamente, i toni dell’idillio e dell’elegia amorosa e paesistica, prima di decadere nel finale, troppo urgente di praticità e facilmente conclusivo, e pur rilevato dall’accenno cosí indicativo per tutto l’Ortis: «muoio incontaminato e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto».

E come questi momenti piú puri e lirici sorgono sul piano drammatico ed altamente eloquente creato dal nuovo ritmo nella seconda parte, cosí tutto l’Ortis è premessa per la futura poesia foscoliana non solo come “vivaio” di temi poetici, non solo come confessione ed autoritratto che fissano e depurano l’animo foscoliano in vista della sua lirica, ma anche proprio nella sua creazione di una concitazione drammatica, di un vigoroso piglio eloquente su cui la lirica foscoliana trova la sua indispensabile condizione, nel distacco da piú facili condizioni idilliche ed elegiache, dalle facili vie d’uscita dell’adolescenza.

E proprio dopo l’Ortis 1802, vicino all’attuazione lirica dei sonetti maggiori e dell’ode alla Fagnani Arese, il Commento alla Chioma di Berenice, nella sua ricchezza di indicazioni sulla cultura letteraria e la poetica foscoliana, può ben rappresentare il punto di partenza per una valutazione della lirica foscoliana dai Sepolcri alle Grazie.


1 Nel resoconto del «Monitore» (redatto da lui, dal Custodi e dal Gioia) risuonano ancora le note del rivoluzionario amante di una democrazia forte e severa, basata su armi proprie, e sempre piú quelle dell’appassionato per l’indipendenza italiana e del critico amaro dei compromessi e degli intrighi dei governanti che portò alla soppressione del giornale e al processo del Custodi.

2 Ma pare piuttosto strano che il Foscolo lasciasse degli appunti all’editore: a che scopo? Che poteva farne lo stampatore?

3 Si veda l’articolo di A. Sorbelli, La prima edizione dell’«Jacopo Ortis», in «Bibliofilia», X, 1918 e la recensione relativa di V. Cian, in «Giornale della letteratura italiana», 1919.

4 Il Foscolo fingeva, come si sa, di essere solo editore delle lettere di Jacopo Ortis. (Il nome del vero Ortis, studente padovano suicida, era Girolamo).

5 Di questo primo volume Mainardi possediamo solo la copia inviata al Goethe ed ora nel museo di Weimar.

6 Per le edizioni dell’Ortis: un’edizione critica è quella di G.A. Martinetti e C. Antona-Traversi, Saluzzo 1887. V. Cian ha riprodotto nel primo volume delle Prose foscoliane (Bari 1912-1913) l’Ortis del ’98, la continuazione del Sassoli, e l’edizione 1802 (con le varianti delle edizioni posteriori, ma introducendo arbitrariamente la lettera del 17 marzo che compare solo nell’edizione 1816). Edizioni notevoli sono quella di N. Vaccalluzzo, Catania 1927; di C. Muscetta, Torino 1942 (Universale Einaudi), e di C. Cordié, Milano 1944. Per l’edizione nazionale sta preparando l’edizione critica G. Gambarin. Sull’Ortis ha dato una bibliografia ragionata F. Pavone, in «Biblion», 1946-1947.

7 In «Giornale storico della letteratura italiana», 1917; poi in Scritti di critica letteraria, III, Firenze 1930.

8 Si confronti con il finale dell’Elegia questa serie di frasi: «Ella mi ama sí ... mi ama. A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso dell’universo, io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per soccorrerci. Deh! a che non venne la morte? E l’ho invocata...», a parte altri punti di contatto.

9 E lo studio di E. Bottasso (Foscolo e Rousseau, Torino 1941) studia le elaborazioni dell’Ortis in funzione dei rapporti con Rousseau.

10 Nella prima redazione il ladruncolo si difende dicendo: «In questo paese fanno tutti cosí» e la riflessione di Jacopo è a metà fra parentesi: «(Ecco la società in miniatura). Tutti cosí». Nella redazione milanese la difesa del fanciullo assume un carattere generale e ben diversamente pessimistico: «Fanno tutti cosí» e nel finale la caduta della parentesi dà maggior rilievo all’esclamazione piú sdegnata che scherzosa di Jacopo. Esempio di come fra le due redazioni anche piccoli particolari diversifichino un tono piú blando della prima da quello piú impetuoso e piú amaro della seconda.

11 Ugo Foscolos Brief an Goethe, Hamburg 1894.

12 Il Werther era stato tradotto in italiano da G. Grassi fin dal 1781.

13 B. Zumbini, Werther e Ortis, in «Studi di letteratura comparata», Bologna 1931.

14 Essenziali, per l’importanza dell’amore per la Roncioni, la lettera fiorentina alla Nencini, comune amica, e quella alla stessa Isabella con frasi riportate poi nell’Ortis nuovo (ad esempio, il finale della lettera alla Nencini). Mentre nella lettera di addio alla Roncioni ritorna in parte la XLV a Teresa che viene corretta nell’Ortis nuovo in base ad espressioni della lettera fiorentina.

15 «Il romanzo italiano... tende alla sola politica come a suo principale scopo...», in Saggio sullo stato della letteratura italiana ecc. (Opere, XI, p. 287). Sulle relazioni Hobhouse-Foscolo e sulla paternità foscoliana del saggio si veda il recentissimo Byron, Hobhouse and Foscolo di E.R. Vincent, Cambridge 1949.

16 Vedi Prose ed. Cian, I, pp. 206-208.